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Trento, 11 maggio 2006
BOATO: VI RACCONTO LA MIA UTOPIA
Il deputato è protagonista del film-documentario sul «Sessantotto». La prima oggi a Roma
dal Corriere del Trentino di giovedì 11 maggio 2006

A Trento era un altro Sessantotto. Se lo ricorda così Marco Boato, allora in prima linea fra le file del movimento studentesco, oggi deputato in Parlamento. «Noi eravamo a Sociologia. L’unica Facoltà di quel tipo in tutta Italia. Apprendevamo all’università – racconta l’uso degli strumenti per conoscere la letteratura, le scienze sociali e le scienze umane in generale. Per questo abbiamo saputo prendere le distanze da certa parte del movimento. I nostri punti di riferimento non erano Stalin o Lenin né Mao».

Nelle sale da domani e a partire del 27 maggio anche in Dvd, è appena stato prodotto il filmato documentario «Sessantotto, l’utopia della realtà». Realizzata per la cura dell’Istituto Luce, la pellicola porta la firma di Ferdinando Vicentini Orgnani e i testi di Adalberto Baldoni, fa il punto sul polverone di quegli anni e raccoglie a decine una serie di interviste concesse al regista dai protagonisti della rivolta di allora. Oltre a Lawrence Ferlinghetti, voce americana autentica della Beat generation, Adriano Sofri, il giornalista Erri De Luca e il politico Massimo Cacciari, il sociologo francese Alain Touraine, la studiosa tedesca Rénate Siébert, il fotografo Larry Keenan e vari altri, è presente nel documento audiovisivo anche un’intervista a Boato. «Non ho ancora visto il filmato – fa sapere – ma ricordo di aver avuto una lunga conversazione con gli intervistatori». Che ebbero quelle giornate di tanto utopico e che cos’altro di tanto realistico? Come fu che il maggio francese esplose e si spense in poco più di un mese, mentre il Sessantotto in Italia cominciò un paio di anni prima e finì dieci anni dopo? E come accadde che l’imput studentesco poté legare con il movimento operaio soltanto in Italia e non anche nelle altre rivolte europee? Anche a Trento era il tempo di Dylan e di Allen Ginsberg. Anche a Trento, come in Italia, la crisi della democrazia cristiana registrava la sua prima grande manifestazione.

E anche a Trento, come in Europa, era la stagione emblematica di una rivoluzione culturale, un biennio interpretato in seguito come l’inizio di una nuova era. Bisognava rifondare la società. Cominciando dal cemento. Ridisegnando i rapporti fra i sistemi delle idee e le forme del consenso. Ma una cosa erano Bologna, Roma o Parigi. Altra cosa erano via Verdi, Sociologia e gli studenti trentini. «Se il movimento di rivolta ha attraversato il mondo – spiega Boato – esso si è tuttavia manifestato con caratteristiche differenti nei singoli Paesi e specialmente a Trento ebbe peculiarità proprie sia rispetto alle altre città europee che nei confronti degli altri centri italiani. Nel resto d’Italia prevalse una forte caratura ideologica il cui orientamento si riferiva alle posizioni del veterocomunismo. Noi, diversamente, non condividevamo lo stalinismo ed avemmo nei confronti di Marx un atteggiamento critico». Le ragioni per le quali a Trento, perlomeno inizialmente, gli studenti seppero imporre una coscienza autonoma ai propri slogan dipesero da diverse circostanze. Anzitutto influì la posizione geografica della città. Vicino al cuore dell’Europa, il contatto per esempio fra l’ateneo trentino e gli ambienti tedeschi fu sempre vivo. «Prestavamo molta attenzione – riprende il deputato – a quanto accadeva a Berlino e a Francoforte».

I modelli contemplati erano quelli di Horkheimer e Adorno, Rudy Dutschk, Joschka Fischer e Daniel Cohn-Bendit. Proprio il tipo di protesta che crebbe all’università di Berlino fu idealmente esportato e trapiantato nelle aule di Trento. In secondo luogo, il movimento di Boato trasse ispirazione, a differenza che negli altri contesti italiani, anche da «La rivolta di Berkeley», un volumetto dell’epoca che raccontava le vicende del primo movimento studentesco sorto negli Stati Uniti, verso la metà degli anni Sessanta, in leggero anticipo sull’Europa. Nei manifestanti californiani non vi era traccia di infatuazioni o declinazioni staliniste. «Si trattava – precisa Boato – di un movimento antiautoritario e non anche marxista o leninista». Crocevia di interferenze culturali, il Sessantotto a Trento visse nelle prime sue stagioni una esperienza originale: slegata, secondo Boato, dai rumorosi modelli del passato interpreti di un comunismo ormai scaduto. «Quella dimensione molto accentuata e di matrice ideologica che il Sessantotto ha assunto nel resto di Italia, altro non è che la parte più caduca del movimento, quella che si servì di mezzi superati – conclude – e che non fu capace di guardare avanti. Era vivo in quegli anni un grande movimento di modernizzazione e anticipazione del futuro, e le prese di posizione in favore dei modelli del veterocomunismo rischiavano di farlo morire».

 

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